La bella compagnia

«Eravamo un gruppo di quaranta, cinquanta persone fra registi, sceneggiatori, attori, direttori della fotografia, scenografi e costumisti», ricorda Mario Monicelli.
«Ci frequentavamo, parlavamo, ridevamo, mangiavamo insieme, giocavamo a calcio. Era una bella compagnia».
Senza indulgere alla nostalgia, il libro rievoca il clima di una stagione irripetibile, gli anni fervidi e irrequieti che vanno dal dopoguerra alla svolta degli anni sessanta, dal neorealismo alla commedia all’italiana. Il set neorealista convive sin dall’inizio con il melodramma e il comico, che nel giro di un paio di stagioni arrivano in cima alla classifica degli incassi.
Nel mélo, che si rifà all’opera lirica, prevale il feuilleton, ripiegato sugli interni familiari e sulle vicissitudini del cuore, in cui le donne rubano la scena agli uomini. Il comico traghetta il vivaio di esperienze e scritture dello spettacolo leggero e dei giornali umoristici ma entra in crisi negli anni in cui la commedia all’italiana, conclusa la vampirizzazione di attori e di sceneggiatori, rivendica la sua autonomia e punta ambiziosamente alla serie A. Nello scenario dei processi di trasformazione dell’industria culturale, non appena si aggiunge un posto a tavola per la televisione degli inizi, si rimettono in discussione i giochi di ruolo e di potere.
Lo sceneggiato comincia a sostituirsi al cinema strappalacrime, senza neppure cambiare i fazzoletti, mentre il varietà televisivo, che mette i mutandoni alle ballerine, non può competere con le componenti trasgressive del cinema comico più scatenato.
Il pubblico finisce per riconoscersi sempre di più nel “riso amaro” della commedia all’italiana, che sbeffeggia lo scenario antropologico nazionale, ma non esclude la complicità.