Costa Orazio , Cur: Boggio Maricla
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stato: Disponibile
Argomento: TEATRO/CRITICA TEATRALE
Collana: LA FENICE DEI TEATRI/35
anno: 2020
, pagine: 376

ISBN: 978-88-6897-211-0
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Rinunciando a una stagione teatrale, dall’ottobre del 1960 all’aprile 1961, Orazio Costa fa un viaggio in India. Non si pone delle domande su che cosa ci sia andato a fare. Nell’intuizione “mimesica” innata in lui, sa che un motivo c’è. Forse nascosto nei mille incontri, nelle mille visioni, nei personaggi che gli si presentano. Forse in uno solo di essi, o in tanti, a fare cumulo per una sola risposta. Non si stanca, il regista che prima del viaggio ha vissuto nella metafora di un teatro raffinato e sublime, di porre l’attenzione alla popolazione, quella miserevole, soprattutto per le strade, la gente che vive di mestieri inventati, una moltitudine che sopravvive a una miseria senza fine. Per chi scrive? Prima di tutto per sé. Con paziente metodicità ogni sera consultando gli appunti presi durante la giornata, ricostruisce con parole un mondo di immagini, di suoni, di odori, un mondo preso dalle sue angosce che gli passa davanti senza notarlo, o qualche volta stabilisce con lui un dialogo inaspettato. Nell’infinita processione umana emerge un’immagine – venditori, madri con i bimbi appesi alla spalla, una vacca ondeggiante... il fiume, dove si bruciano i morti, la gente si lava, si purifica, si riposa, stende i panni. Lo spettacolo di tradizione indiana è comunque uno dei temi che più lo interessano, e numerosi sono gli incontri che concerta prima di arrivare nei vari posti. Ma è la preparazione degli attori, attraverso l’adeguamento al personaggio, ad attrarre la sua attenzione, il trucco soprattutto, che va descrivendo nei minimi particolari, con la curiosità di trovarsi di fronte a qualcosa di assolutamente diverso dal nostro teatro e dalle nostre danze. Uno degli esempi più approfonditi del kathakali, ma soprattutto la sua preparazione, lo osserva in una piccola cittadina; ha preferito un luogo in cui avvicinare la massima autenticità che si mantiene viva nella preparazione che precede la rappresentazione. Colori che simboleggiano i caratteri dei personaggi, l’ingrandimento dei lineamenti, fino all’imposizione di una sorta di cornice esterna, rigida, che il truccatore apporrà al trucco già elaborato dall’attore completa la preparazione. Ci sono due concetti che lo attraggono ugualmente, opposti fra loro, il non finito e la perfezione; intuitivamente hanno in comune il fatto di essere indefinibili. La perfezione appartiene forse al Taj Mahal che ad Agra, poco distante da Delhi, si innalza nel suo biancore diafano. Ad Ajanta le grotte del II secolo A.C. scavate per secoli nella roccia dal fiume mostrano infinite statue del Buddha, e immagini pittoriche che si sviluppano nella lunga sequela delle sale, un tempo abitate. È qui che il fascino del non finito si mostra in tutta la sua singolarità. “Se ciò che speravo fosse avvenuto, avrei forse potuto decidere di non tornare. Da troppo tempo ormai penso al ritorno. Dio può sempre salvarmi a qualcosa di meglio”. L’incontro con Madre Teresa gli arriva alla fine del soggiorno, dopo una inconsapevole volontà a rimandare quel momento, che forse avrebbe potuto rispondere indirettamente al bisogno di conoscere che cosa aveva da fare, lui, nel mondo. Incontro particolare, che lascia intuire un modo di domandarsi di sé. Deluso dalla mancanza di un messaggio, deve ancora ripensare all’incontro con Madre Teresa. Lei di messaggi non ne ha avuti. Forse non si è mai chiesta che cosa Dio volesse da lei. Ha fatto. E Orazio ha fatto della sua vita uno strumento per far emergere la bellezza dalla Parola. La caducità delle cose ha colpito il suo lavoro portato avanti per decenni; ma il discorso di fondo, che riguarda ogni essere umano e la sua possibilità di esprimersi superando i limiti della banalità attraverso quella mimicità istintiva che lui riuscì a far diventare metodo e linguaggio per tutti supera i limiti della caducità e, purché non venga dimenticata, rimane per noi, sì, un messaggio, che davvero gli dobbiamo.

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